Dillo che sei mia. La trappola fatale dell’immaginario – di Michela Murgia

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Ruotano due grandi fraintendimenti semantici inforno alla parola femminicidio.

Il primo riguarda il collegamento con la prospettiva della morte ed è quello più evidente. Per quanto appaia incredibile, resta ancora problematico convincere la maggior parte delle persone a utilizzare questo termine in senso proprio, cioè per riferirsi alla morte delle donne che hanno perso la vita per mano maschile dentro a rapporti fondati sullo squilibrio di potere tra i generi.

“A cosa serve chiamarlo femminicidio?” – continuano a chiedere alcuni e talvolta alcune – “La parola omicidio comprende già i morti di tutti i sessi”.

Sarebbe un’obiezione vera solo se la parola “femminicidio” indicasse il sesso delle morte, laddove invece indica il motivo per cui sono state uccise.

Una donna che perde la vita durante una rapina non è femminicidio.

Sono femminicidi solo le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative di ruolo che gli uomini e la società patriarcale hanno delle donne.

Dire omicidio dice che qualcuno è morto, dire femminicidio dice anche il perché.

Non bisogna stancarsi di chiarire questo passaggio, non così elementare come potrebbe sembrare fuori dai circuiti della pratica femminista e talvolta anche al loro interno.

Resta da dirimere il secondo equivoco, molto più sottile e difficile da definire.

Il termine femminicidio non si esaurisce nel definire la morte fisica, anche perché in Itali le vite perse per questa ragione riguardano un numero di donne che oscilla approssimativamente tra 100 e 130 all’anno, che sul piano strettamente umano sono tutte di troppo, ma rappresentano un fenomeno limitato dal punto di vista statistico, almeno rispetto ad altre classificazioni di perdita.

Per fare un esempio: il fatto che gli incidenti stradali in Italia uccidano ogni anno oltre 3000 persone e ne feriscano circa 250.000 fa si che l’insicurezza stradale venga percepita come un problema collettivo e si mettano in atto specifiche azioni preventive e sanzionatorie per ridurne la portata. Invece il numero relativamente ridotto delle morti dirette per femminicidio – oltre a essere frutto di un calcolo approssimativo dovuto all’assenza di uno specifico osservatorio del fenomeno – genera un allarme sociale che può sembrare ingannevolmente acuto in prossimità di fatti di cronaca particolarmente efferati, ma che nella quotidianità è invece quasi inesistente. Il numero di morte per femminicidio è infatti 40 volte più basso persino della soglia necessaria per definire una qualunque malattia rara.

Ridurre quindi la pregnanza del termine alla sua più estrema conseguenza non aiuta la presa in carico collettiva delle cause e delle conseguenze che hanno un raggio infinitamente più ampio.

La prospettiva cambia del tutto quando si chiarisce che sotto il termine femminicidio non rientra solo quel terribile centinaio di donne morte, ma anche le pratiche di mortificazione a cui quotidianamente milioni di donne in questo paese vengono sottoposte senza che chi le metta in atto incorra nella stessa sanzione sociale causata dalla responsabilità di una morte fisica.

Vanno intese per femminicidio anche le morti civili, cioè tutte le negazioni di dignità e tutte le violenze fisiche, psichiche e morali rivolte alle singole donne in quanto tali e alle donne tutte nella loro appartenenza di genere.

E’ senza dubbio definibile femminicidio la morte professionale delle donne attraverso la negazione della parità di salario e di prospettive di crescita, e non importa che sia operata in modo scoperto con specifiche pratiche contrattuali oppure in modo più subdolo, per esempio tollerando l’esistenza del cosiddetto soffitto di cristallo, quella resistenza sociale che, dopo aver permesso alle donne di aspirare alle posizioni apicali, poi impedisce loro di raggiungerle attraverso la sottovalutazione sistematica del loro contributo rispetto a quello maschile.

E’ femminicidio l’assenza di una prospettiva di genere nelle pratiche mediche, che fa sì che le donne – statisticamente meno esposte all’infarto in giovane età – ne muoiano però in proporzione doppia a causa della prevenzione orientata esclusivamente al maschile, e dunque alla mancata informazione sui loro specifici sintomi.

E’ femminicidio la quantità di rinunce lavorative legate alla gravidanza e alla nascita dei figli, un sacrificio mono genere tollerato dalle normative, favorito dall’assenza di un welfare specifico e percepito in generale irrilevante da una società dove la maggior parte delle persone resta convinta che la maternità sia il primo e il più nobile dei compiti femminili.

In questo senso per estensione è femminicida anche uno Stato che non agisce per la rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione delle donne – come costituzionalmente stabilito- ma fa campagne colpevolizzanti su quelle che di fronte a questi ostacoli scelgono di non generare o di farlo dopo aver raggiunto una sempre più tardiva stabilità economica.

E’ femminicidio anche il giudizio estetico e morale costante sui corpi e sulle scelte delle donne, che condiziona la qualità della vita fisica e psichica di tutte noi, in particolare le più giovani e fragili, meno strutturate per organizzare un salvifico dissenso.

Sei brutta, sei grassa, troia, come ti vesti, sembri una suora, sei piatta come una tavola, cagna, hai una bocca da pompini, obbedisci, sei volgare, sei maschiaccio, le vere donne non fanno questo, sorridi, sii gentile, vedi che parli troppo, stai zitta, cambiati, torli quella foto dal profilo, fatti filmare mentre ti spogli, dillo che sei mia.

Ciascuna donna sente frasi di questo tenore decine di volte prima ancora di arrivare ai diciotto anni e spesso le accade senza che mai ella stessa possa capire che il femminicidio, prima e più di che una morte, è una pratica di negazione e controllo. “Ti ammazzo” è la conclusione di un processo e diventa qualcosa di più di una minaccia solo quando tutte le altre parole e azioni hanno fatto il loro lavoro di annichilimento.

Articolo pubblicato nel supplemento  “Il corpo del delitto” al numero de Il Manifesto del 23 Novembre 2016.

8 pensieri su “Dillo che sei mia. La trappola fatale dell’immaginario – di Michela Murgia

  1. Di Equal pay se ne sta finalmente tornando a ragionare ed intervenire per sanare questo intollerabile sopruso di genere. La crisi economica ha finito per affossare il problema dietro false chiamate alla risoluzione dell’emergenza, dimenticandosi quante siano le donne che nell’emergenza economica stanno annegando. A parte l’inciso , la scrittura dell’articolo è tutta fondamentale e condivisibile.

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  2. Forse potrebbe essere improprio indicare con il termine ‘femminicidio’ l’intero processo di discriminazione di genere, ma questa è una considerazione di natura prettamente stilistica. Concettualmente sono assolutamente d’accordo su tutto, in particolare sulla pericolosità di ridurre determinati fenomeni alla loro più estrema conseguenza (appunto la violenza fisica) e la conseguente mancata presa in carico collettiva delle cause. Bellissimo articolo.

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