Ci chiamavano Libertà

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Quest’anno, per il mio compleanno mi è stato regalato un libro. Uno di quei libri che ti cambiano la vita. Che ti coinvolgono e che ti fanno affermare “il mondo adesso non sarà più lo stesso”.

Ho ringraziato cento volte la mia amica, sorella, Marina, per avermelo regalato. E voglio condividerlo con voi perchè il messaggio di questo libro è davvero importante.

Ci chiamavano Libertà di Donatella Alfonso. Non è una storia, non è un romanzo, è un insieme di testimonianze a riprova che le partigiane e le resistenti sono davvero esistite. Che senza di loro la Resistenza italiana nella seconda guerra mondiale non sarebbe mai esistita.

Non ne parlano mai nelle scuole delle donne. Perchè? Quale era il loro ruolo nella resistenza partigiana? Perchè sono così importanti?

Si parla di una “Resistenza Taciuta” come viene definita per la prima volta nel 1976 nel libro di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, e non perchè ci sia stato un silenzio assoluto, ma perchè sono state davvero poche le donne che hanno avuto il coraggio di accettare un riconoscimento e dichiarare che erano state partigiane.

In un paese maschilista come il nostro, con una mentalità vecchia di almeno 70 anni, la donna che combatteva, che passava del tempo con gli uomini, che non stava in casa a badare alla famiglia, era considerata una poco di buono. Ma vi spiegherò meglio dopo…

Secondo i calcoli di esperti militari si contano almeno un milione di donne impegnate nella Resistenza. Purtroppo però i numeri ufficiali negli elenchi dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) sono ben altri:

35 mila partigiane combattenti

20 mila “patriote” con funzioni di supporto

70 mila donne inquadrate nei Gdd (gruppi di difesa della donna)

19 medaglie d’oro al valore e 17 d’argento

2812 le donne che sono state fucilate o impiccate

1070 le donne cadute in combattimento

2750 le donne deportate nei campi di concentramento (molte delle quali a Ravensbrück)

4653 le donne arrestate e torturate

891 le donne deferite al tribunale speciale

Inutile quindi ribadire che la donna, nella resistenza italiana ha avuto un ruolo fondamentale.

Il libro, che contiene le testimonianze di decine di donne che hanno combattuto e lottato per la libertà (non solo dalla guerra, ma anche dal pensiero chiuso e maschilista) apre a un punto di vista diverso, che non deve essere più ignorato.

Facendo un passo indietro, un’immagine esplicativa di come viveva la donna 70 anni fa è questa:

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*foto presa dalla pagina “Abbatto i Muri” di Facebook

Lascio anche un articolo interessante con l’intervista alla ricercatrice Annacarla Valeriano che ha svolto ricerche con l’Università agli Studi di Teramo sulla vita di queste donne considerate “malate” nella società fascista.

La presa di coscienza delle donne che hanno deciso di combattere contro la guerra, ribellandosi al fascismo e la nazismo, non era solo per il bisogno di porre fine alla miseria, alla povertà, alla morte.

Le donne combattevano anche per i loro diritti, per il loro bisogno di potersi esprimere, per la possibilità di un futuro migliore per le loro figlie.

Leggendo le testimonianze riportate nel libro, il bisogno primario era quello del diritto al voto. Il suffragio universale. Tanto che il 31 gennaio 1945 con il decreto De Gasperi-Togliatti, tutte le donne sopra i ventuno anni di età, ottennero il diritto al voto. L’8 marzo i GDD (Gruppi di difesa delle donne) celebrarono la giornata internazionale della donna puntando proprio sull’importanza del diritto al voto. E anche se la radio banda di Mussolini, il giorno in cui fu concesso questo diritto, continuava ad affermare che “le donne italiane erano incapaci di avere un’opinione politica e che il giorno delle elezioni avrebbero votato per il candidato più bello o per un attore… ” le donne non si diedero per vinte, e per il voto dell’Assemblea costituente furono ben 14.610.845 ad esercitare il loro diritto, contro gli uomini che furono 13.354.601.

IL RUOLO DELLE DONNE

I ruoli che hanno ricoperto le partigiane si possono definire in tre categorie:

  • la corriera
  • la staffetta
  • la lotta armata

La corriera era il ruolo riservato alla donna giovane, spesso poco più che bambina per dare meno nell’occhio. Consisteva nel far passare le valigie o le borse a doppio fondo attraverso i posti di blocco e di controllo dei nazifascisti. Come racconta Rosa Messina Pessi insieme al marito Secondo Pessi  nel libro “Nella lotta insieme. Il prezzo della democrazia”  il viaggio durava in media tre o quattro giorni perchè all’epoca non si avevano i mezzi di cui si dispone oggi. Poteva essere effettuato in treno, a piedi, con mezzi di fortuna. Lei doveva arrivare a Milano, presso la vecchia drogheria del sig. Luigi, il quale gestiva le “corriere” provenienti da tutta Italia e forniva il cambio delle valigie che poi dovevano essere trasportate. Nel retro della bottega vi era una stanza per far soggiornare le corriere, in modo che non rischiassero di essere trovate dai nazifascisti. Le corriere poi uscivano dal retrobottega solo quando dovevano ripartire.

La staffetta consisteva nella trasmissione delle informazioni e nella consegna di materiali e armi. E’ il ruolo più noto nella resistenza femminile.

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Queste donne, anche giovanissime, andavano ovunque: attraversavano villaggi, si arrampicavano su per i monti, scendevano a valle. Ovunque pur di portare a termine il loro lavoro, piene di paura ma allo stesso tempo spavalde, attraversavano i posti di blocco dei nazifascisti pur di raggiungere il loro unico obiettivo. La libertà.

Riprendo un passaggio del libro “Ci chiamavano libertà” che spiega benissimo il concetto:

“… La bicicletta è il simbolo della libertà della staffetta: si pedala col vento tra i capelli, si osserva il passaggio che scorre veloce, si respira a pieni polmoni, si incontra ogni genere di persona. Si rischia, la staffetta lo sa perfettamente e questo fa parte della libertà e della scelta che la giovane ha compiuto.”

Le regole principali che dovevano essere rispettate per svolgere questi lavori, come si evince da una “Lettera del partito comunista alle compagne staffette” che fu diffusa clandestinamente e pubblicata solo dieci anni dopo la Liberazione da “Rinascita” erano:

  1. Non devi far conoscere a nessuno il lavoro che svolgi, dove vai e da dove vieni.
  2. Nella casa dove abiti, devi far credere che hai una normale professione e devi provvederti di quanto ti occorre per dimostrare che eserciti quella professione.
  3. Devi avere sempre pronta una giustificazione nel caso che durante il viaggio fossi fermata e interrogata su quello che fai.
  4. Sii sempre puntuale e prudente nell’andare agli appuntamenti e ai recapiti
  5. Nell’andare ai recapiti assicurati sempre che nessuno ti segua.
  6. Se ti accorgi che qualche persona sospetta segue i tuoi movimenti, non entrare nella casa, non recarti al luogo del recapito o dell’appuntamento.
  7. Quando ti accade qualche incidente o noti qualche cosa che non va, devi subito informare nei minimi particolari il dirigente del tuo lavoro.
  8. Nascondi il materiale che trasporti nel modo migliore e cammina sempre con disinvoltura e senza destare sospetti.
  9. Quando hai recapiti dove ti rechi prendi contatto con i compagni, consegna a loro ciò che devi consegnare senza dire ciò che porti o ciò che sei venuta a fare.

La lotta armata. Sì, perchè anche le donne combattevano. Quando erano bruciate (ovvero erano state riconosciute o segnalate ai nazifasciti, e quindi non potevano più lavorare come staffette) le donne venivano mandate in montagna insieme ai partigiani per la lotta armata. Ci sono state anche donne che hanno deciso di farlo per vocazione, perchè volevano combattere, ma spesso il motivo era la salvaguardia del gruppo a cui facevano riferimento e l’incolumità della donna e della sua famiglia.

Riprendo la testimonianza di Mariuccia Fava per sottolineare che le donne non ricevevano nessun comportamento di favore in quanto donne.

“… Mi sono trovata sempre bene, nessuno non solo ha mai fatto delle avances o mi ha mancato di rispetto, ma proprio nessuno ci pensava: lì eravamo solo dei compagni che combattevano. … Eravamo tutti uguali. … Certo, quando sono arrivata su magari qualcuno si aspettava che io facessi qualche lavoro per loro, ma se lo son sognato: io non ho mai fatto da mangiare, per principio… io volevo sparare … “

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Il problema, per quanto riguarda la testimonianza, è che queste donne (come avevo già accennato prima) non potevano raccontare cosa era accaduto durante la guerra. Non potevano dire che erano state delle protagoniste della resistenza e non potevano dire che erano state le protagoniste della Resistenza italiana. Il patriarcato, forte all’epoca, le avrebbe messe in cattiva luce. Rischiavano di non trovare lavoro, di essere ripudiate dalle famiglie e dai conoscenti. Soprattutto le donne che erano state sui monti.

L’idea di una donna insieme a una trentina di uomini (compagni, fratelli di lotta)… “chissà cosa le hanno fatto quando era lassù”… Una lotta al pudore.

Per questo non si hanno molte testimonianze delle donne. Per questo molte hanno preferito non ottenere l’onorificenza e la medaglia al valore. Per questo è una Resistenza Taciuta che non si racconta nei libri di storia. Fortunatamente, grazie al lavoro svolto dalla scrittrice, la testimonianza di Mariuccia Fava è una delle tante presenti nel libro. Vi consiglio vivamente di leggerlo per avere un quadro più chiaro della situazione.

Quest’anno appunto per il 27 gennaio abbiamo voluto sottolineare una storia taciuta. Semisconosciuta.

Chi conosce il nostro blog sa già dell’attenzione che poniamo alla storia. Perchè solo conoscendo la storia passata possiamo capire cosa sta succedendo oggi.

In 70 anni quante cose sono cambiate? Il ruolo della donna è diverso?

Fortunatamente per molti aspetti sì, anche se il patriarcato è duro a morire.

Oggi le donne possono lavorare, ma ancora non possono vestirsi come vogliono, dormire con chi vogliono, agire COME VOGLIONO. La strada è ancora lunga.

Non ci stanchiamo mai di ripetere che la donna “poco di buono” non esiste. La libertà di espressione, di azione, di pensiero è importante. E su questo dobbiamo ancora lavorare tanto.

Il maschilismo interiorizzato, inteso come “Eva contro Eva”, ovvero quelle azioni di slut-shaming che avvengono ogni giorno, di certo non ci aiutano. Le donne per prime dovrebbero essere unite e dovrebbero capire che solo rimanendo compatte, si può lottare contro il patriarcato e contro il sessismo, proprio come hanno fatto le nostre eroine. Le nostre partigiane che hanno sconfitto la guerra.

Senza di loro non sarebbe potuto succedere. Si parla di alleanza e coalizione tra donne, tra uomini e TRA DONNE E UOMINI.

Se prima si era indicate per “poco di buono” perchè si andava a combattere sui monti, adesso siamo indicate per “poco di buono” perchè ci mettiamo una minigonna, perchè dormiamo in camere miste in un ostello o perchè torniamo a casa di notte da sole.

Occorre capire che le donne non devono offendersi a vicenda per trasmettere un messaggio di solidarietà tra i sessi.

In questa giornata della memoria, VOGLIAMO RICORDARE, non scordare.

Vogliamo ricordare TUTT* coloro che hanno combattuto per la nostra libertà. Tutt* coloro che non ce l’anno fatta. Tutt* coloro che credevano in un mondo migliore, di pace, di accettazione, di tolleranza, DI AMORE.

Nel nostro primissimo video pubblicato sulla nostra pagina di Facebook è visibile questo:

Noi non vogliamo che la storia si ripeta. Non vogliamo che il mondo sia così.

Impegniamoci a cambiare.

Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo

                                                                                                     – Mahatma Gandhi

Valentina R.

Fonti:

10 pensieri su “Ci chiamavano Libertà

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